Pienezza – Vuoto, di Federica Ugolini

Pienezza – Vuoto, di Federica Ugolini

Chi è la bottiglia e chi il Bicchiere? E se non fossimo al bar…

Nella mia professione di psicologa del lavoro, di selezionatrice e di orientatrice mi è capitato spesso di occuparmi di selezioni del personale e, ancora più spesso, di tenere seminari e creare materiali per aiutare le persone disoccupate o in cerca di nuova occupazione ad approcciarsi al meglio ai colloqui di lavoro in modo da raggiungere più agevolmente i propri obiettivi. In questo articolo vorrei condividere con voi tutte le informazioni più importanti su questo tema e anche raccontarvi di un frangente nel quale, senza rendermene conto, mi sono comportata esattamente come consiglio a tutti di NON fare, pagandone le conseguenze (fortunatamente non irreparabili…).

Solitamente, quando cerchiamo lavoro oppure ci approcciamo a una nuova azienda cercando di farci assumere oppure ancora aspiriamo a una promozione in ambito professionale, siamo spinti da un bisogno (pagare le spese di casa, fare la spesa, poterci concedere qualche sfizio eccetera), oppure da un desiderio (migliorare la nostra posizione economica, fare un lavoro più soddisfacente, esprimere e condividere con altri qualche nostro talento e così via). È quella sensazione, che definirei sana, di mancanza a spingerci verso qualcosa che riteniamo “nutriente” e migliorativo della nostra posizione attuale. Il problema sorge, e in un ambito importante come quello del lavoro e del denaro questo accade spesso, quando il bisogno o il desiderio diventano molto forti e intensi e condizionano in negativo anche tutto ciò che cerchiamo di fare per appagare il nostro bisogno o realizzare il nostro desiderio. È un po’ ciò che accade quando si parla di ansia da prestazione: ci mettiamo in testa che l’esito di un determinato evento debba per forza essere quello da noi sperato e tutta la paura e l’agitazione che proviamo all’idea che le cose possano andare in una direzione diversa ci angoscia talmente tanto da farci perdere, ad esempio, il giusto riposo, focus e lucidità ed è proprio questo poi, paradossalmente, a causare l’insuccesso che tanto temiamo.

Non è per forza l’ansia a rompere le uova nel paniere in casi come questo, a volte è sufficiente che durate un colloquio di lavoro iniziamo a porci costantemente in una posizione “down” e di bisogno e la persona dall’altra parte della scrivania percepirà sempre più questo divario iniziando a vedere sempre meno il valore del candidato, che a volte arriva quasi a cercare di farsi andare bene qualsiasi tipo di proposta e quasi a elemosinare la posizione desiderata. Ma come mai è un errore strategico mettersi in questa posizione? È un quesito importante dato che tanti lavoratori che ho incontrato al contrario credevano che mostrarsi disponibili a 360 gradi fosse un punto a loro favore. Possiamo rispondere a questa domanda provando a immaginare per un attimo di essere dall’altra parte. Se tu fossi un’azienda in cerca di un dipendente per poter svolgere un certo incarico, al netto del tuo “buon cuore” ovviamente, ti interesserebbe risolvere i suoi problemi (il suo mutuo o l’affitto da pagare, figli da mantenere, macchina nuova da acquistare…) o trovare una persona in grado, attraverso le sue caratteristiche personali, conoscenze e competenze, di risolvere i problemi tuoi e della tua attività? Direi più la seconda opzione, no? Allora, è chiaro che l’atteggiamento generato dalla sensazione di bisogno e di richiesta può tradursi in un autogol in sede di colloquio.

Un altro tema importante quando si parla di colloqui di lavoro è che vengono visti di norma come una sorta di gare nelle quali se si viene scelti si “vince” mentre se non si viene selezionati la partita è da considerarsi come persa. Inquadrando la questione in questo modo e aggiungendo il fatto che chi è a colloquio si sente nella posizione di bisogno e di chi non ha il coltello dalla parte del manico, il risultato è che il candidato tende a perdere fiducia in se stesso e lucidità (elementi che sarebbero indispensabili per fornire un quadro completo ed equilibrato delle proprie risorse) finendo per mostrarsi poco interessante per il selezionatore e di fatto condizionando a proprio sfavore l’esisto del colloquio. Altre volte, al contrario, ben più rare nella mia esperienza, il candidato si pone di fronte al selezionatore in modo eccessivamente spavaldo e di norma questo atteggiamento indispone i selezionatori che hanno l’impressione di avere di fronte qualcuno che voglia “venire a comandare in casa loro”, e anche questo non dispone affatto a favore del candidato. È un segnale di buona autostima? No, affatto, al contrario, la spavalderia è l’altra faccia della stessa medaglia dell’insicurezza e, anche se in modo diverso, la lascia trasparire influenzando anche in questo caso sfavorevolmente per il candidato l’esisto del colloquio. L’autostima d’altronde è un concetto simile a quello di salute, non esiste in generale il problema di avere “troppa salute” così come non esiste l’avere “troppa autostima” in quanto nel concetto di autostima è già compreso l’aspetto dell’equilibrio in merito al valore che si attribuisce a se stessi. Il problema, in tutti i casi che abbiamo elencato, è proprio il fatto che il colloquio viene visto come una sfida, come se ci dovesse a tutti i costi essere una delle due parti che è bottiglia (quindi piena) e dall’altra una parte che è bicchiere (quindi vuoto) e quindi la parte vuota (o che si percepirà come tale) sarà disperatamente alla ricerca mentre quella che si percepisce come piena si sentirà superiore anche in modo indisponente per l’altra parte. È da notare che possono esserci anche dei colloqui in cui è il datore di lavoro a farsi percepire talmente disperato da indurre il potenziale dipendente ad alzare a dismisura le proprie richieste e pretese. Questo gioco di ruoli, come si può facilmente intuire, sposta gli equilibri e gli esiti di tanti incontri tra possibili datori di lavoro e candidati.

Le dinamiche che ho elencato si possono ritrovare non solo quando si cerca un lavoro ma anche quando si propone una propria idea, iniziativa o progetto tanto che, prima della pubblicazione del mio libro, quando inviavo il mio manoscritto alle varie case editrici mi sentivo in una situazione molto simile. Ultimamente, come accennavo sopra, mi è capitato di farmi “fregare” proprio dall’atteggiamento che ho descritto nelle righe precedenti. Ho ideato un progetto importante e ambizioso e, insieme a un’azienda che sta collaborando con me alla sua realizzazione, ho avuto già due o tre colloqui con potenziali finanziatori del progetto. Solo al terzo colloquio, andato all’incirca come i due precedenti, mi sono resa conto di un errore madornale che io e l’imprenditore che mi affiancava stavamo commettendo. Quando l’ho capito ho preso il telefono e l’ho subito chiamato. Gli ho parlato con il cuore e gli ho detto che da diversi giorni mi stavo interrogando sugli esiti dei nostri primi colloqui con i nostri potenziali finanziatori. Eppure io e lui crediamo tantissimo in questo progetto e, sulla carta, anche i nostri interlocutori erano seriamente interessati a parteciparvi, salvo poi trovarci davanti, quasi incredibilmente, a un atteggiamento ben più tiepido da parte loro una volta arrivati al colloquio di persona. Poi finalmente è arrivata la (banalissima!!) rivelazione: l’atteggiamento adottato da me e dall’altro imprenditore nei confronti di queste persone era quello della richiesta, come se la realizzazione del progetto dipendesse solo ed esclusivamente dal loro “sì”. Tutto questo è insensato se si tiene conto del fatto (che cerco di non dimenticare mai) che le possibilità sono infinite e che l’atteggiamento del questuante toglie focus e credibilità alla potenza del progetto. “Da ora in poi” gli ho detto “dobbiamo cercare di far capire a queste persone quanto sarebbero fortunate a essere parte di questo progetto e non focalizzarci soltanto sul pendere dalle labbra di chi abbiamo di fronte”. Neanche dirlo, i colloqui successivi sono andati in modo molto diverso e non solo, anche una delle persone con le quali avevamo già parlato mi ha richiamato per dirmi, che dopo aver riflettuto, è molto interessata a far parte attiva della nostra idea.

La questione del bicchiere vuoto e della bottiglia ci inganna e ci porta a continuare a vedere colloqui come quelli descritti come un tiro alla fune, metafora che non ci aiuta affatto a capire che, alla fine, nessuno sa davvero che cosa sarà meglio per noi alla fine, neppure noi stessi. A volte ci focalizziamo su un lavoro pensando che sia la nostra soluzione ideale ma magari non è così. Ricordo ancora tutto lo stress e l’impegno dei giorni prima del concorso per entrare al centro per l’impiego, mi sentivo come se l’esito di quella prova fosse una questione di vita o di morte mentre, solo una manciata di anni dopo, mi sono ritrovata a rassegnare le mie dimissioni volontarie da quello stesso lavoro.

Ho smesso di credere al fatto che “perdiamo dei treni” e ho iniziato a pensare che il treno giusto per me è proprio quello che mi sta attendendo sul binario a porte aperte proprio nel momento in cui io sono pronta per varcare la sua soglia.

Nel mio libro “La sedia trovata nella spazzatura”, nel quale ho cercato di fornire tante indicazioni su un modo diverso di vedere la ricerca del lavoro “giusto”, propongo, per descrivere il colloquio di lavoro la metafora del primo appuntamento romantico.

Sì, probabilmente c’è una delle due persone più interessata e incuriosita dell’altra, che vorrebbe proprio che l’incontro andasse “bene”, ma è vero anche che per entrambe le parti quell’appuntamento sarà l’occasione per conoscersi, vedere se ci sono punti in comune o meno e, solo dopo, decidere se proseguire o meno il rapporto. Se percepiamo i colloqui di lavoro in questo modo sarà molto più facile per noi restare sereni, del resto le possibilità sono davvero infinite e anche un “no” può essere la grande opportunità per esplorare altre strade, magari più affini a noi.

Articolo, tratto dalla rivista Heisenberg, mese di ottobre 2025.


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Federica Ugolini

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