Adamo ed Eva, nudi, sotto un albero, cacciati dal paradiso terrestre. È con questa scena — riprodotta su una delle insegne più famose della Londra settecentesca — che si apre il viaggio di Fritz Endell attraverso la storia dell’ospitalità. Il suo libro del 1916, Old Tavern Signs: An Excursion in the History of Hospitality, è molto più di un catalogo di simboli appesi alle porte: è un affascinante trattato culturale sul modo in cui, per secoli, l’accoglienza si è espressa attraverso segni visivi.
Perché, prima dei loghi, c’erano le insegne. E prima ancora delle insegne, c’era un ramo.

🌿 Quando bastava un ramoscello
Nell’antica Roma, come nelle campagne della Germania, bastava appendere un ramoscello d’edera o un grappolo d’uva per comunicare che dentro si serviva vino. L’edera, dedicata a Bacco, aveva un potere simbolico immediato. Eppure non era solo una decorazione: era un segnale visivo, leggibile da tutti, anche da chi non sapeva leggere. Come scrive Endell: “Il vino buono non aveva bisogno d’insegna, ma l’ospitalità sì”.
🏛️ Le insegne di Pompei e dell’antica Roma
A Pompei, un’osteria esponeva come insegna uno scudo cimbrico dipinto con un gallo: “Imago galli in scuto Cimbrico picta”. A Roma si conosceva il “vicus ursi pileati” — il vicolo dell’Orso col cappello. Le insegne non solo segnalavano, ma davano il nome ai luoghi, come fanno oggi i marchi iconici nel mondo dell’hospitality.
🐘 Un elefante a Parigi, uno a Strasburgo
Endell racconta anche del celebre Elephant and Castle londinese, di un’insegna romana con un elefante avvolto da un serpente (forse in onore a un avo africano del proprietario), e di quella di Strasburgo, dove si trovavano studenti di giurisprudenza come un giovane Goethe, che brindavano “à l’éléphant droit” — con un gioco di parole tra “elefante” e “allievo in diritto”.
👼 Angeli, pentagrammi e protezione
Nel Medioevo, le taverne parigine avevano nomi come In angelo o In duobus angelis. A Grantham, in Inghilterra, l’“Angel Inn” accolse persino Re Giovanni e Riccardo III. Ma non erano solo ornamenti: le insegne con mani aperte o stelle a cinque punte proteggevano l’ospite, come il pentagramma della tradizione nordica contro gli spiriti maligni — il Drudenfuss, citato persino da Goethe nel Faust.
🎨 Le insegne nell’arte e nella poesia
I pittori fiamminghi come Jan Steen e David Teniers dipingevano le taverne non solo nei loro interni vivaci, ma anche all’esterno, con insegne reali: brocche, ghirlande, lune. Steen, figlio di un birraio, divenne egli stesso oste, e la sua osteria a Delft aveva davvero un’insegna: “Zur Schlange”. Più tardi, Hogarth a Londra immortalò insegne come The Sun, The Cock, Adam and Eve e persino una scacchiera romana.
E poi c’era la poesia. John Keats dedicò alla Mermaid Tavern di Londra versi incantevoli:
“Souls of poets dead and gone, What Elysium have ye known, Happy fields or mossy cavern, Choicer than the Mermaid Tavern?”
🪧 Le insegne erano mappe e identità
Le insegne erano coordinate culturali. Riconoscibili, trasmissibili, evocative. Endell racconta che in Italia, a Borgo San Dalmazzo, si trovavano ancora nei primi del Novecento insegne bellissime: Il cannone dorato, La campana, Il cavallo bianco. A Lodi, le insegne erano così creative che un Genio (una figura mitica, simbolica) veniva rappresentato mentre prendeva le misure di un cliente — citazione esplicita di un affresco pompeiano.
📚 Una lezione per oggi
Fritz Endell non ci parla di insegne per nostalgia. Ma per ricordarci che l’ospitalità è anche un gesto visivo, una narrazione simbolica. Che ogni porta d’ingresso — reale o metaforica — dice qualcosa prima ancora di aprirsi. E che accogliere è anche farsi riconoscere.
Nel nostro tempo, dove ogni hotel ha un logo e ogni bar un’identità visiva, Old Tavern Signs ci chiede: cosa racconta il tuo segno? È solo marketing o è memoria? È superficie o è promessa?
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