appunti di viaggio d‘un ‘pescatore di perle’ (e) – (Enfer d’Arvier, 2a parte)

Oltrepassata la zona di Arvier in direzione della catena alpina, la produzione di vini rossi s’interrompe per lasciare spazio a vigneti di uve bianche fra i più alti in Europa dove, fra La Salle e Morgex, si produce il pregevole ‘Blanc de Morgex et de La Salle’. 

Ma questa è un’altra storia.

I primi riscontri dei “metodi di coltivazione della vite nel territorio di Arvier e Leverogne” riportano invece al XV secolo. Nei documenti dell’epoca, infatti, si legge dell’esistenza di un ‘pergolato alto’ (thoppie): un metodo innovativo di coltivazione della vite, che prevedeva l’utilizzo di pali di legno per tenere la pianta sollevata dal terreno.

Si riferisce allo stesso periodo storico l’aneddoto secondo il quale, durante la sua discesa in Italia, al passaggio nella Vallée avvenuto nel 1494 il re di Francia Carlo VIII fu ospite del priore Giorgio di Challant che lo volle onorare offrendogli un grosso quantitativo del vino di Arvier.

Secoli dopo, tra la fine dell’Ottocento e la seconda metà del Novecento “la vigna rischia quasi di scomparire dal territorio che, almeno per un millennio, seppe valorizzare questa coltura”. Così riporta il volume “Arvier, una comunità nella storia”, edito nel 2004 da Musumeci – “Gli antichi terrazzamenti eretti dagli avi a forza di braccia sono preda di rovi e sterpaglie ed i vecchi muri cominciano a crollare”.

Effettivamente, a cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale, la pratica della viticoltura ad Arvier subì l’ennesima pesante interruzione. Fu solo negli anni Trenta che alcuni coraggiosi contadini si rimboccarono le maniche tentando il recupero di qualche piccolo appezzamento: scendevano al fiume per riempire d’acqua le loro bigonce di metallo, trasportando il materiale necessario a dorso di mulo. 

È di quegli anni l’introduzione delle barbatelle di ‘Petit Rouge’, che ben si adattarono all’esposizione, alle pendenze ed al clima… infernale di quei declivi.

L’AGRONAUTA

2. continua


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