Per anni il turismo ha vissuto di numeri di arrivi, di presenze, di pernottamenti, di flussi, una corsa al record, una contabilità ossessiva che misurava il successo delle destinazioni sulla base delle cifre e non delle esperienze. Bastava dire “più turisti” per intendere “più benessere”, “più sviluppo”, “più notorietà” ma oggi qualcosa si è rotto, o meglio, si è finalmente aperto. Sta emergendo un nuovo paradigma che non misura più la ricchezza del viaggio nella quantità di luoghi visitati, ma nella qualità dell’incontro con il territorio e con le persone che lo abitano è il passaggio dall’accumulo di visite all’immersione culturale, un’evoluzione che riscrive i codici del turismo contemporaneo e che sta trasformando profondamente anche il modo in cui si progettano, gestiscono e raccontano le destinazioni.

C’è stato un tempo in cui il turista si muoveva solo con la lista dei “must see” in mano: Colosseo, Vaticano, Ponte di Rialto, ogni meta era un punto da spuntare, una foto da archiviare, un trofeo di viaggio. Quel tempo, in larga parte, coincide con il boom economico del dopoguerra, quando viaggiare era sinonimo di emancipazione e di status quando l’obiettivo era “vedere il mondo”, collezionare immagini, sentirsi cittadini globali. Oggi, invece, il turista contemporaneo non vuole più “vedere tutto”, ma capire qualcosa; non cerca il souvenir, ma l’emozione autentica non l’immagine, ma il racconto. Questo mutamento non è solo filosofico è il riflesso di un cambiamento sociale profondo in quanto dopo anni di globalizzazione, uniformità e standardizzazione, il viaggiatore ha riscoperto il valore della differenza, dell’unicità, della lentezza. Il periodo del lockdown ha rappresentato una frattura nella percezione stessa del viaggio in quanto privati per mesi della libertà di movimento, milioni di persone hanno compreso che il turismo non è una fuga ma un bisogno esistenziale, quello di conoscere, di confrontarsi, di respirare altri ritmi di vita. Il turista post-pandemico ha mostrato di voler ascoltare i luoghi, non solo attraversarli, lo dimostra la crescita esponenziale di segmenti come il turismo esperienziale, quello rurale, enogastronomico, spirituale, outdoor e dei borghi. In questi ambiti, l’esperienza non è un “extra”, ma il cuore dell’offerta, e l’immersione nei luoghi, nelle culture e nelle tradizioni locali non è solo una modalità di fruizione del viaggio, ma una nuova filosofia del vivere.

Chi sceglie di “immergersi” in un luogo non vuole restare spettatore, ma diventare parte della scena. In Molise, dove personalmente svolgo un programma di consulenza alberghiera da diversi anni, si moltiplicano i progetti di turismo lento che offrono la possibilità di conoscere le tradizioni e l’arte culinaria delle antiche ricette locali. Anche l’ospitalità cambia modo di proporsi, perché l’hotel non è più soltanto il luogo del pernottamento, ma diventa un ambasciatore culturale del territorio. Le strutture ricettive — come quella in cui opero — che interpretano questa tendenza investono in relazioni più che in metrature, valorizzano i produttori locali, raccontano la storia dei piatti serviti a tavola, organizzano micro-eventi culturali, mostre, laboratori, visite guidate personalizzate. In ogni caso questo tipo di turismo non esisterebbe senza una comunità disposta a condividersi, perché non basta “mettere in scena” ad esempio, la vita di un borgo, occorre viverla con sincerità e renderla accessibile. Quando gli abitanti diventano protagonisti e non comparse, nasce un turismo generativo, capace di rigenerare anche l’autostima collettiva, facilitando l’inclusione degli attori in un immaginario palcoscenico teatrale. Questa “new wave” sta riportando alla luce un concetto dimenticato come l’artigianalità dell’ospitalità ciò significa anche che il valore del turismo non può più essere misurato solo in termini economici. E c’è un’altra variabile che segna il passaggio dal turismo superficiale a quello immersivo: il tempo. Il turista contemporaneo, pur vivendo in un mondo accelerato, cerca esperienze che lo aiutino a rallentare. Il lusso oggi non è più la suite, ma la possibilità di “non fare nulla di fretta”.

Ma attenzione, ogni tendenza virtuosa porta con sé una possibile distorsione dell’offerta, perché la ricerca dell’autenticità rischia di trasformarsi in “mercato” dell’autentico-falso. Sempre più destinazioni infatti, costruiscono esperienze “pseudo-locali”, dove tutto è perfettamente sceneggiato, ciò diventa un paradosso che il turista stesso sta imparando a riconoscere. Un esempio?  L’inflazione dei mercatini di Natale, oramai presenti anche sui “litorali sabbiosi”.  Questo cambio di paradigma ha generato evidentemente, nuove figure professionali — il destination manager, il facilitatore di comunità, il curatore di esperienze, il travel designer — ruoli nati per gestire la complessità di un turismo fatto di emozioni e relazioni più che di pacchetti e tariffe. Essi aiutano a costruire destinazioni coerenti, capaci di integrare turismo, ambiente, cultura, agricoltura e comunità in un’unica visione e a dare un indirizzamento dell’offerta su basi reali e genuine evitando una mercificazione dell’autenticamente falso ed edificando una nuova dimensione relazionale dell’esperienza umana, una connessione tra l’individuo e il luogo, fornendo un valore più profondo. Nel turismo tradizionale, il valore si misurava in euro, presenze e notti vendute nel qui invece, il valore si produce attraverso l’emozione. Ad esempio, un borgo che accoglie senza filtri, un artigiano che mostra il proprio mestiere e magari invita l’Ospite a tavola con la sua famiglia sono gesti che valgono più di mille immagini patinate e generano economie distribuite, perché crea reddito diffuso in quanto coinvolge agricoltori, piccoli produttori, guide locali, artisti, educatori, anziani custodi di tradizioni.

È un turismo che non concentra, ma espande la ricchezza, lasciandola nei territori che la producono, perché funzioni, però, serve una regia attenta e condivisa, una governance integrata tra pubblico e privato.


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Mino Reganato

Mino Reganato

Consulente/Direttore alberghiero, ha una lunga esperienza nei settori turistico-alberghiero.

1 commento

  1. Inquadratura molto bella di una realtà che si vorrebbe crescesse nell’immaginario collettivo, ma che è sempre sotto schiaffo da parte di quelle componenti dell’affarismo e della politica che, di concerto con i signori del tech, puntano a ribaltare il concetto per attualizzarlo con i propri ‘desiderata’ che non vanno (quasi) mai nella direzione dovuta, favorevole al turismo ed al pensiero ‘slow’.
    Ergo. Il turismo che cambia pelle può e deve essere il primo passo verso il vero cambiamento sociale.

    C. B.

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